Io, tu, noi, Lucio.
Tra i più amati musicisti italiani, Battisti avrebbe compiuto 80 anni il 5 marzo prossimo. La sua eredità musicale è ancora al centro di una gara idiota a chi lo ama di più.
Una delle persone che amo di più al mondo, mio zio Pasco, è un fan sfegatato di Lucio Battisti. Ho visto foto di quando aveva ancora tanti capelli, gli somigliava pure. Ciò vuol dire che sono stata esposta alla musica di Lucio sin da quand’ero molto piccola. Conosco interi album a memoria, pure i pezzi sfigati che non passano mai in radio.
Quando si parla di Lucio si parla anche di Mogol e Pasquale Panella. Diciamoci la verità, Mogol è un grande paroliere, è in grado di colpire chiunque con un verso. Panella però era un titano, capace d’infilare parole come “bitume” e “fumista” nel repertorio di uno che aveva cantato di ciliegi in fiore senza età e libellule inseguite in un prato. Mogol è Giovanni Pascoli, magari non cogli il secondo e il terzo livello di significato, però il messaggio primario è lì, semplice, la cavallina storna, il sì gran pianto che nel concavo cielo sfavilla. Panella invece è Giosuè Carducci. Ti piazza “Funere Mersit Acerbo” nel titolo per vedere se hai studiato l’Eneide in latino, cita il Nibelungelied perché lui sa dei Burgundi e tu no. Voglio molto bene a entrambi, anzi, a tutti e quattro, però le differenze sono evidenti.
La persona a cui non si fa mai riferimento come paroliera di Lucio è Grazia Letizia Veronese, sua moglie, considerata dai più la Yoko Ono italiana giusto perché non potevamo permetterci di meglio. Veronese, con lo pseudonimo di Velezia, scrisse per Lucio i testi dell’album “E già”, che più che a Lucio fa pensare a Luciano (Ligabue, per l’esattezza), o a Vasco Rossi (sì, sì, Vasco è un buon paroliere, se ci si mette, state calmi). Non ha mai scritto per altri, e di quell’album non si ricorda nessuno. È un peccato che abbia dei testi non all’altezza, perché musicalmente parlando Battisti era in pieno stato di grazia sperimentale, il disco fu registrato usando solo computer e strumenti elettronici. Michele Serra oggi scrive sul Venerdì che Lucio è stato “un musicista enorme e differente da tutti, genio compositivo inesauribile, forse accostabile al solo Morricone per prolificità, varietà dei temi e imprevedibilità”. Lo era, certo, ma più che a Ennio Morricone io l’avrei paragonato a David Bowie o a Paul McCartney, che pure erano, anzi, sono due alieni nonché affezionati ascoltatori del nostro. Morricone era un maestro d’orchestra figlio di un musicista, aveva respirato musica sin dalla culla e aveva una formazione classica importante. Lucio era figlio di un impiegato doganale e di una casalinga, aveva studiato da perito elettrotecnico diplomandosi per il rotto della cuffia, giusto per scansare il servizio militare. Credo che avesse consapevolezza delle sue lacune nel campo delle parole, altrimenti i pezzi se li sarebbe scritti da solo, ma da un punto di vista musicale era un autodidatta appassionato, formidabile, che dalla sua aveva un talento colossale, smisurato, avido di stimoli e novità.
Il fatto che un’eredità così immensa, riprodotta, idolatrata — avete mai incontrato qualcuno in Italia che non sappia a memoria almeno un pezzo di Battisti? Io no — sia amministrata da qualcuno che da decenni mostra al mondo solo il terzo dito mi dà grande dispiacere. “Lucio voleva così”. Ma davvero? Che senso ha fare dischi se del resto del mondo non te ne importa nulla? La musica non ha bisogno di mediazioni. Il canto può imporre barriere linguistiche, un testo che non capisci può non toccarti fino in fondo, ma gli esseri viventi sono fatti di ritmo, dal battito cardiaco in poi. La musica arriva a tutti, santo cielo, è la forma di comunicazione più pura ed efficace in circolazione. Beethoven componeva da sordo perché la musica ce l’aveva dentro. Perché comunicare, e comunicare bene come faceva Lucio, se del prossimo non sai che fartene? Per soldi? Lucio avrebbe potuto comporre per sé e cessare le pubblicazioni nel 1978, avrebbe comunque vissuto da nababbo fino ai mille anni.
Grazia Letizia Veronese non è la Yoko Ono italiana. Ono fa un uso encomiabile della musica e della memoria di John Lennon, e i Beatles probabilmente si sarebbero sciolti anche se John si fosse messo con Santa Caterina da Siena. Non è nemmeno la Courtney Love italiana, figuriamoci, Love gira per il mondo pretendendo attenzioni perché anni fa ha imbroccato un matrimonio e diversi fidanzati giusti (Kurt Cobain, Billy Corgan, James Moreland, Ed Norton), non fa che parlare di Kurt perché altrimenti manco la riconoscerebbero all’ingresso dei locali.
Velezia è una donna sola per scelta, avvelenata per convinzione, e tra le tre mi pare sia quella messa peggio. Gestisce l’eredità umana e musicale di Lucio come una vestale farebbe col fuoco di Estia, in modo ossessivo, con gelosia divorante. L’ha persino portato via dal piccolo cimitero brianzolo dov’era sepolto, facendolo cremare e poi seppellire in località segreta — avete letto bene: segreta — per evitare che gli si possa portare un fiore o lasciare un biglietto. Velezia è uno scoglio che cerca di arginare il mare, e i risultati di tentativi come questo li ha cantati Lucio anni fa, non c’è bisogno di ripetersi.
Lo dico senza sarcasmo: povera donna, chissà che vita triste.
(Lucio, ci manchi. Grazie di tutto. Buon compleanno.)